Roccella Jonica - seconda parte

La sera del 16 maggio, fotografando un ultimo sbarco notturno, ho salutato il Porto delle Grazie con la promessa di tornarci non appena mi fosse stato possibile.
Così, dopo poco più di tre settimane, eccomi tornato a Roccella.
Le aspettative erano alte, era previsto un gran numero di arrivi: la stagione estiva non porta solo turisti sulle coste del Sud Italia.

Decido di non avvicinarmi al Porto a meno che non avvenga uno sbarco, un po’ per scaramanzia, un po’ per concedermi il lusso di pensare ad altro, ma la prima chiamata non si fa attendere troppo.

Mercoledì 8 giugno alle 14:30 è previsto l’arrivo di una barca della Guardia Costiera con a bordo 61 migranti.

Arrivo al porto con un buon anticipo, ma non sono l’unico, altre persone si trovano già lì. In particolare, noto un signore in camicia circondato da telecamere e smartphone: sta facendo una diretta social, è un “Onorevole”. Cerco di non prestargli troppa attenzione ma la sua voce è veramente alta. Le parole che sento provenire dalla sua bocca sono “blocco navale”, “l’Italia che vogliamo” e via dicendo. Preferisco non fare nomi, anche se credo non sia difficile capire di quale fazione politica faccia parte.
Il clima generale è molto teso. Rispetto al mese scorso sono presenti più poliziotti, i quali prontamente mi fermano per chiedermi chi sono. Mostro con fierezza il mio permesso firmato dal Comandante e loro mi raccomandano di non entrare per nessun motivo nel tendone dove si trovano i profughi.

“Certo” penso “come no”. 

Ma neanche il tempo di pensare “sono più furbo io” che girando lo sguardo noto che tutta l’area è stata recintata con tanto di cancello all’ingresso ed io non capisco come in tre settimane di mia assenza abbiano accelerato i lavori creando questa zona franca inaccessibile. 

Il motivo in realtà già lo so, solo non pensavo alle conseguenze: il giorno dopo l’ultimo sbarco notturno a cui avevo assistito, una signora afghana di settant’anni è morta all’interno del campo profughi. È stata quindi aperta un’indagine, e le autorità hanno deciso di aumentare i controlli su tutto quello che accade all’interno del campo. 

Ovviamente ci sono lati positivi e lati negativi nell’aumento delle misure di sicurezza, ma mentre ci penso la barca arriva e quella è la mia priorità, i miei pensieri da hippie possono aspettare.

Questa volta però non accade nulla di particolare, quando arrivano al Porto le operazioni di soccorso sono più o meno tutte uguali e le fotografie non fanno che ripetersi, cerco quindi di perdermi in chiacchiere con le forze dell’ordine per capire come si stanno evolvendo le cose. Vengo a sapere che da circa due settimane i migranti restano al campo del Porto giusto il tempo di essere visitati, principalmente per accertamenti riguardo Covid-19 e scabbia, per poi consegnare loro un pezzo di carta con cui li si obbliga a lasciare l’Italia. In che modo non si sa.

Certo, chi arriva con figli minorenni viene spostato in qualche centro di accoglienza, ma tutti gli altri devono lasciare il Paese per conto loro.
Alcuni, i più fortunati, possono raggiungere qualche parente in Europa, loro perlomeno hanno qualcuno che può dargli delle indicazioni, mentre per gli altri è tutta un’incognita.

E i soldi necessari per i mezzi di trasporto non rappresentano neanche il problema principale: la vera difficoltà è la lingua, tanti di loro non conoscono una parola in inglese, figuriamoci in italiano. Non hanno idea di dove andare. Alcuni domandano dov’è la stazione dei treni, altri spariscono nel nulla e sicuramente molti dall’Italia non se ne andranno, finendo quasi sicuramente nelle mani di chi li sfrutterà in lavori sottopagati ed in nero, nei capi di arance o vendendo rose nei centri storici.
Questa cosa non funziona.

Per il momento, seguire il loro viaggio in Italia sarebbe troppo complicato (che è poi la scusa con cui nascondo la mia perplessità a riguardo e forse anche un po’ di paura). Riesco invece ad essere presente nel momento in cui vengono consegnati i cosiddetti “fogli di via” ai pochi rimasti al Porto dallo sbarco precedente.
Ciò che più attira la mia attenzione è un uomo di mezza età completamente ricoperto da quella che credo essere scabbia. A volte le condizioni di chi arriva sono davvero spaventose e lui non è da meno. Mi domando come sia possibile abbandonare un essere umano in questo stato. Lo sento discutere con il traduttore mentre gli vengono consegnate le carte.
Riesco a fotografare il suo braccio. Decido di non andare oltre, meglio che me ne vada.

Una ventina di minuti più tardi, incontro quell’uomo sul lungomare. Mi ferma in lacrime chiedendomi cose, ma non parla inglese e io non capisco una parola di quello che dice. Mi mostra un biglietto con un numero di telefono. Non riesco ad avvicinarmi a lui, la scabbia è estremamente contagiosa e chissà quali altre malattie potrebbe avere, non me la sento di rischiare, non me lo posso permettere ora. Non so cosa fare. Provo a dargli indicazioni per raggiungere il paese e la stazione dei treni.
Non ho idea di che fine abbia fatto. 

Ripenso spesso a questo episodio: è una di quelle situazioni in cui si spera di non doversi trovare mai nella vita, penso che forse avrei potuto fare di più, non lo so.

Per i dieci giorni successivi non succede nulla, solo un perenne stato di allerta.

Un ultimo grande sbarco arriva di sabato pomeriggio,
137 persone, principalmente nuclei famigliari, tantissimi bambini.
Forse perché è sabato e probabilmente perché nessun politico è presente accade tutto in maniera abbastanza rilassata. Riesco a parlare con molti di loro e farmi raccontare le loro storie. I più piccoli, dopo una settimana in mare a bordo di una barca piccola, non smettono di giocare e correre. 
Il clima potrebbe sembrare sereno. La realtà è che, tra burocrazia e molte altre problematiche, il loro viaggio sicuramente non terminerà a breve.
L’unica cosa che riesco a dire prima di salutarli con sempre più dubbi è “buona fortuna”.

Grazie a Beatrice Botticini per avermi aiutato nella scrittura di questo articolo.

 
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