¡Hasta la revolución! … ¿siempre? Parte 2 - Spagna

questo non è un articolo di polemiche ma una proposta di dialogo

questo non è un articolo di polemiche ma una proposta di dialogo

I miei pensieri sono sempre stati molto scettici nel parlare di manifestazioni. Essendo cresciuto in provincia e non avendola praticamente abbandonata fino ai vent’anni non ho mai avuto veramente l’occasione di sperimentarle. Mi sono sempre però permesso di pensarci e guardarle insufficientemente da fuori, convincendomi sempre meno della loro utilità ma sperando sempre in un certo senso di potermi ricredere. Ottime premesse per decidere di partecipare ad una manifestazione per la pace di dieci giorni consecutivi in Spagna senza ovviamente saper parlare spagnolo, vero? 

In realtà credo di si, alla fine se ci affidassimo solamente a cose a noi note, o peggio unicamente a quello che ci convinciamo essere giusto anche quando potrebbe non esserlo, andremmo contro ad ogni principio democratico rischiando tra l’altro di perdere l’occasione di poter cambiare idea o al contrario di ottenere una conferma, entrambe cose fondamentali. Così mi sono deciso a prendere un biglietto aereo per Madrid ed iniziare questa trasferta lavorativa differente con il compito di studiare e documentare la Caravana Migranti, una marcia per la pace che si svolge ogni anno per chiedere giustizia nei confronti delle Persone in movimento.

PERSONE IN MOVIMENTO = termine non razzista per indicare un gruppo di persone che stanno affrontando una rotta migratoria

L’arrivo è decisamente particolare: per le due notti precedenti la Caravana sono ospite a casa di un’altra partecipante, una compagna, o “compañera" come si dice qui. Lei non parla inglese ed io mastico molto male lo spagnolo ma una cosa è tremendamente certa: a lei non sto simpatico. Passa la prima giornata a rispondermi in maniera abbastanza provocatoria del tipo che dopo averle detto che la sua casa è molto bella (lo è davvero) ed accogliente la sua risposta è stata un secco “perché??!” con tanto di pretesa risposta in spagnolo.
Situazione decisamente imbarazzante.
Il motivo di questo suo atteggiamento lo scopro durante la cena del secondo giorno, quando insieme ad altre due persone che hanno poi partecipato alla Caravana mi confessa di essere stata preoccupata del fatto che io fossi una spia, un infiltrato della polizia italiana che, per qualche motivo, si era finto fotografo per poter guastare i piani delle varie manifestazioni.
Io. Un poliziotto in borghese. Ottimo inizio no? 

Finito questo divertente sipario ci prepariamo per la partenza del il giorno successivo.
L’arrivo alla fermata del bus che ci accompagnerà per i prossimi dieci giorni dà sfogo a tutte le mie più grandi paure: il gruppo è formato per la maggior parte da over 50 carichi di cori da stadio modificati ad hoc, bandiere a tema, sandali e bandane. La ricetta perfetta per la tipica gita di paese pensata appositamente per persone di mezza età a cui io vorrei tutto tranne che partecipare.

La prima tappa è una manifestazione a Madrid che parte con la polizia che ci blocca ancora prima di iniziare impedendoci di andare fino ad una determinata piazza ma costringendoci a fare tutto all’angolo di un marciapiede, praticamente all’ingresso di un lussuoso hotel. Quello che succede poi fa parte della scaletta di azioni che si ripeteranno per tutte le altre tappe della Caravana ossia testimonianze, cartelli e cori contro le frontiere e un minuto di silenzio per poi partire alla volta del pullman che ci porterà alla prossima tappa, in questo caso Màlaga dove prenderemo un traghetto notturno che ci porterà a Melilla, in Africa. 

Il viaggio è infinito, in Spagna fa un caldo allucinante e come se non bastasse per quasi metà del viaggio ogni partecipante, me compreso, si deve presentare al microfono: nome, cognome e la tua mania. Cosa intendessero per “mania” ancora non l’ho bel capito, ma di figuracce con lo spagnolo ne ho fatte talmente tante che di questa, nel caso, neanche mi preoccupo. E poi i cori, l’appello, tutto gridato dentro al microfono di servizio del pullman che sicuramente è stato progettato da qualcuno che odia stare con le persone perché altrimenti non si spiegherebbe l’insopportabile volume delle casse da cui viene sparata la voce di chi parla. Sono davvero in difficoltà, mi sembra di star partecipando ad un viaggio organizzato, uno di quelli che ho cercato di evitare per tutta la vita e che ora mi trovo, pagando, a vivere per i prossimi dieci giorni.
Alla fine però riesco a prenderla con filosofia, sto andando in Africa per la prima volta in vita mia, ci starò poco ed andarci arrabbiato sarebbe uno spreco inutile, spero solo di poter rimanere piacevolmente sorpreso da questi dieci giorni di camminate sotto il sole cocente di mezzogiorno.

L’arrivo a Melilla è interessante: per quando sia un’enclave spagnola di Spagna c’è veramente poco. Le due giornate passano tra le testimonianze all’interno di un centro sociale seguite dalla vera e propria marcia verso il confine con il Marocco nel punto preciso dove esattamente un anno prima morirono diverse persone e tantissime rimasero ferite nel tentativo di raggiungere il territorio europeo (un articolo che ne parla https://it.euronews.com/2022/06/25/melilla-la-strage-dei-migranti-soffocati-nella-calca-per-superare-il-muro). Il tema della Caravana di quest’anno è proprio questo: chiedere giustizia ad un anno dall’accaduto, quando ancora un colpevole non c’è. A partecipare alla marcia siamo meno di 200 persone, non molte insomma, senza contare che gli abitanti di Melilla che partecipano si contano davvero sulle dita di una mano.

Una delle domande che mi viene posta, o meglio, una delle domande che intercetto e a cui decido impulsivamente di rispondere è: secondo te come mai siamo in pochi?
La mia arrogante ma studiata risposta è: perché le modalità sono vecchie e non servono a nulla, chi vuole davvero dare una mano sta già facendo altro.
Essendo entrato così prepotentemente in un discorso rispondendo in maniera brusca ma onesta diciamo che non mi ha fatto apparire come la persona più simpatica del momento, però vorrei un attimo spiegarmi.

Partiamo con il dire che le rivolte, le manifestazioni, le dimostrazioni o chiamatele come volete, per come le conosciamo sono nate verso la fine degli anni sessanta. Ecco, da allora non sono mai cambiate: stesse scritte sugli stessi cartelli, stessi cori e addirittura stessi vestiti alle volte. Magari all’inizio sono servite a qualcosa, ma ora mi pare proprio che abbiano perso quella poesia rivoluzionaria.
Sottolineare il problema, dire che una cosa non è giusta e gridarla fortissimo è un diritto sacrosanto si, ma dall’altra parte credo sia fondamentale capire che se non viene proposta una valida alternativa allora tutto lasci un po’ il tempo che trova.

Per esempio per tutti i dieci giorni della Caravana non abbiamo fatto altro che ascoltare testimonianze, manifestare, mangiare per poi spostarci in un altro posto a ripetere le stesse cose. Che va benissimo, però… Soprattutto per quanto riguarda le testimonianze, è favoloso che ci siano, ma se ce la raccontiamo solo tra di noi che siamo già tuttə d’accordo sull’argomento, tutta sta ramanzina non servirà a nulla se non a darci una piccola pacca sulle spalle a vicenda, che ripeto va benissimo, ma serve a poco niente.
La domanda che dovremmo porci quindi è: qual è il motivo per cui siamo qui? Per noi, o per gli altri? A chi serve, per esempio dico, la Caravana?

I giorni passano, le manifestazioni e le testimonianze proseguono mentre io continuo a pormi domande mentre scatto le solite fotografie che non hanno un granché di unico e speciale.
Finché dopo l’ennesima testimonianza capisco una cosa.

Lei è Maria, una signora messicana emigrata in Spagna e madre di otto figli, quattro dei quali desaparecidos. Ha più di settant’anni e non salta un singolo giorno di Caravana, comprese tutte le manifestazioni per cui cammina con bastone alla mano e grida reggendo striscioni contro le frontiere, una riconoscibilissima forza della natura. Ricordo che sul pullman da Madrid, quando fu il suo turno di presentarsi, disse che la cosa che più le piace, la sua “mania”, è di abbracciare ed essere abbracciata. Io li, mentre lei parlava, per qualche secondo ho smesso di pensare che le presentazioni fossero patetiche. Già sapevo della sua storia e forse per questo molto prepotentemente non ho mai prestato attenzione alle sue testimonianze. Questo finché non ho capito, ascoltandone attentamente una, che la Caravana, per chi come lei è doppiamente vittima delle rotte migratorie, è uno spazio fondamentale per non sentirsi soli, per avere ancora ragione di esistere, per andare avanti.
Maria è doppiamente vittima perché non solo è stata una migrante, ma nelle stesse rotte ha perso quattro dei suoi figli che non sono mai stati ritrovati. Per lei questo viaggio è molto più che una pacca sulla spalla.


Per quanto però capisca e condivida la questione, una domanda mi sorge spontanea: c’è davvero bisogno di una gita di dieci giorni per far sentire una persona meno sola, o si potrebbero organizzare più momenti ugualmente funzionali durante tutto il resto dell’anno?
Personalmente non so se nei restanti trecentocinquantacinque giorni dell’anno Maria non abbia nessuno intorno a lei. Anzi son sicurissimo che sia circondata di persone che le vogliono bene e glielo auguro con tutto il mio cuore.
La mia riflessione tuttavia è nei confronti di un movimento come la Caravana. Per parteciparvi ho dovuto personalmente prendere due aerei, pagare la quota di iscrizione più tutti i pasti che non erano inclusi nel pacchetto, contando che per otto notti ho letteralmente dormito per terra poi facciamo cifra tonda e diciamo che comunque stando bassi ho speso circa seicento euro.
Non avrebbe avuto più senso fare due o tre giorni di manifestazioni ed in caso dare il restante ricavato ad associazioni che operano direttamente sul campo?
Davvero, qualsiasi cosa: cibo, medicine, vestiti o spese legali.

Il mondo solidale è pieno di associazioni che nel silenzio operano in maniera decisamente più impattante. Ora potrò sembrare antipatico e ripetitivo, ma davvero non posso credere che questi dieci giorni di “vacanza” (si, l’ho detto) possano servire a cambiare qualcosa, se non il mio conto in banca.
È molto facile puntare il dito contro chi la pensa diversamente, aspettandoci che il modo venga dalla nostra parte. Sarebbe bellissimo risolvere tutti i conflitti sociali intonando una canzone allegra e ballando insieme per strada a mezzanotte. Ma il mondo vero purtroppo non funziona così, che ci piaccia o no. Possiamo si decidere di abbandonare tutto e vivere in armonia con noi stessi e la natura in una baracca di legno sulla cima di un monte altissimo o su di un’isola sperduta nell’oceano, ma non possiamo sperare che gridando da lontano il mondo ci segua cambiando le proprie idee politiche e sociali.

Quindi si, ¡Hasta la revolución, siempre!, ma proviamo a fermarci un secondo in questo mondo che continua a correre velocissimo e valutiamo cosa è utile e cosa non lo è. Sperimentiamo cose nuove e rispolveriamo il dialogo con tutti, compreso chi non è d’accordo.
In un periodo storico come quello che stiamo vivendo non possiamo proclamarci rivoluzionari chiudendo le porte e puntando il dito contro chi apparentemente urla più forte di noi.
Spero non passi il messaggio di me che ho odiato questa esperienza, non è assolutamente così.
Il mio lavoro consiste nell’andare di persona a vedere cosa succede nel mondo, vivere determinate esperienze, capirne le dinamiche per poi raccontarle a chi non le può vivere o non le conosce, sottolineando le mie impressioni a riguardo.
Credo che non solo la Caravana, ma tutti i movimenti pacifisti e solidali siano realtà stupende e necessarie, solo cerco di guardare le finalità di queste azioni e non riesco proprio a vederne un risultato concreto. Sarà che sono nato e cresciuto in maniera molto oggettiva ma son convinto che se una qualsiasi cosa ha del potenziale ma non funziona allora va aggiustata altrimenti occupa spazio per nulla.
A volte semplicemente oliandone qualche ingranaggio, altre volte provando a smontarla pezzo per pezzo per poi ripartire da zero finché non si trova una soluzione.
È davvero arrivato il momento di capire dov’è il guasto, sederci, abbassare la voce e cercare delle soluzioni umanitarie che possano davvero risolvere le crisi globali come quella delle rotte migratorie.

 
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¡Hasta la revolución! … ¿siempre? Parte 1, Grecia