Errori da principiante

PRIMA DI INIZIARE
Ho deciso di avviare una raccolta fondi per aiutarmi a sostenere le spese di viaggio necessarie a permettermi di documentare al meglio le rotte migratorie, oltre a garantire l’ingresso gratuito di tutte le mie mostre fotografiche che sto organizzando in Italia e all’estero in modo da poter continuare a parlare di questioni umanitarie al maggior numero di persone possibile. Oltre alle mostre fotografiche, però, ogni donazione garantirà la continuazione del mio blog con articoli, in lingua italiana ed inglese, che dopo ogni tappa verranno pubblicati per raccontare al meglio le realtà protagoniste del mio lavoro, ma non è finita qui! Ricevere queste donazioni assicurerà la continuazione della mia newsletter che permetterà in maniera gratuita ad ogni iscritto di rimanere aggiornato sui miei spostamenti, nuove mostre, nuovi progetti e altre curiosità!
Come ultimo, però, tengo molto a sottolineare che ricevere questo tipo di fondi mi consentirà di mantenere uno stile di informazione, divulgazione e giornalismo, liberi e gratuiti per tuttə, sempre.

Per sostenermi potete donare al link
https://buonacausa.org/cause/progetto-fotografico-native-land
oppure cliccando l’apposito pulsante qui sotto :)

Un grazie speciale a chiunque deciderà di accompagnarmi lungo il percorso. ❤️

Buona lettura!

  • Riempire la valigia per un lungo viaggio di cose inutili e pesanti pur sapendo che neanche a casa useresti la maggior parte delle cose;

  • Non aver pensato ad un modo per filtrare la terribile acqua che dovrai bere per i prossimi quaranta giorni sapendo che ti sarebbe bastata una borraccia da venti euro per evitare la sete;

  • Dimenticare di tenere il passaporto in tasca quando si esce di casa e dimenticare per l’ennesima volta di mettersi la crema solare dopo ventotto anni di scottature sulla pelle; 

  • Tenere la macchina fotografica in vista dove non dovresti, perché lo fai di mestiere e dovresti anche aver imparato che spaventa le persone, “i tuoi soggetti”;

  • Convincersi di poter essere indispensabili, arrabbiarsi per nulla pretendendo che chi non ti conosce capisca immediatamente di che pasta sei fatto evitando però di dire quello che pensi realmente;

  • Promettersi, anche oggi, che questa sarà l’ultima sigaretta.


 Tra tutti i miei difetti quello che forse preferisco è il fatto di essere maniacalmente fissato con il cercare di tenere in ordine e sempre puliti gli attrezzi del mestiere: macchina fotografica sempre carica e schede di memoria vuote pronte all’utilizzo, computer costantemente spolverato e con i tasti sempre puliti dal sudore delle mie mani, stampante coperta da un telo per non rischiare, non so ancora bene come, che qualsiasi cosa finisca sulle delicatissime parti che daranno vita alle mie fotografie. Tutto pronto all’uso nel posto più sicuro e facile da ricordare così che quando servirà non dovrò perdere un secondo a cercarlo.

Non so bene da dove sia nata questa esigenza, probabilmente se ci penso fin da piccolo ero fissato nel rimettere in ordine i miei giochi, o meglio nel mio ordine, forse dopo le mie diverse esperienze lavorative in diverse aziende mi sono abituato a riordinare tutto convinto che così nessuno mi potrà contestare cosa alcuna. 

Non so neanche se mi interessa sapere da dove arriva questa cosa, mi piace essere ordinato, che sia solo buonsenso o forse più semplicemente che sono solo un po’ stronzo, dato che per esempio il mio letto a confronto è spesso un disastro e dopo ogni lavatrice passa almeno una settimana prima che ripieghi i vestiti al loro posto, ma su certe cose non riesco proprio a passare oltre. 

Curiosa la mente umana.

Con queste premesse mi sono catapultato in Serbia per documentarne il confine con l’Ungheria, il confine attualmente più problematico parlando di Rotta Balcanica per quanto riguarda il numero di persone, i respingimenti ed una miriade di problemi conseguenti, trafficanti di esseri umani compresi.
Condivido la casa dove alloggio con altri volontari impegnati come me nell’indispensabile compito di rendere il mondo un posto migliore, chi si occupa di organizzare le giornate, chi di preparare il materiale e chi di parlarne al mondo. Un caro amico definirebbe la situazione come “una cosa proprio da gente bianca” e davvero non saprei come altro descriverla. Difficile per me pensarla diversamente da un’esperienza tendenzialmente fine a se stessa, o meglio utile a chi la opera più che a chi la riceve. Mettiamo una pezza diciamo e anche volendo non potremmo fare di più, le uniche persone che potrebbero davvero cambiare la situazione sono tutte quelle figure di potere che hanno il lusso di poter prendere decisioni eppure davanti all’evidenza di una crisi umanitaria di dimensioni apocalittiche non fanno altro che complicare le cose per chi non ha nulla se non un briciolo di speranza.

Noi invece ci limitiamo a portare qualche pezzo di pane e delle mele comprate al ribasso senza ancora sapere quali parole usare per cercare di far cambiare al resto del mondo il modo di vedere le cose. Suona drammatico, vero? Eppure la realtà dei fatti è questa.
 Passiamo le giornate portando cibo e docce alle Persone in Movimento provenienti da Siria, Afghanistan, Iran e via dicendo, le storie si ripetono spesso e le modalità non cambiano quasi mai, proprio come il fatto che il problema delle Rotte Migratorie non pare risolversi ma anzi continua a peggiorare. Eppure qui si continua ininterrottamente a correre tra un campo coltivato, una fabbrica o le rotaie abbandonate di un treno arrugginito, dal controllare che non arrivi la polizia all’assicurarsi che chi viene aiutato non faccia parte in qualche modo di una qualche attività criminale, consapevoli in un certo senso di potersi solo soffermare sul fare meno danni possibile più che migliorare non si sa come l’energia dell’universo.

 Io in tutto questo sono qui per documentare cosa succede attraverso la mia macchina fotografica, in una poetica avventura dove noi siamo i buoni ed i cattivi sono tutti coloro che non condividono il nostro operato, credo.
 Fare il fotografo e raccontare il mondo è il sogno della mia vita ed è la cosa che più di tutte mi fa sentire vivo, eppure ultimamente cerco di fermarmi spesso a riflettere su quello che sto facendo, anzi su quello che si sta facendo.

 Tornando alle mie manie di protagonismo infatti i primi giorni qui sono stati intensi non perché la situazione generale è psicologicamente pesante ma piuttosto perché la cucina di questa casa è costantemente sporca e disordinata e a me questa cosa proprio non va giù, quell’istinto casalingo che in qualche modo prende il sopravvento sul tema principale del mio lavoro facendomi saltare i nervi in una completamente inutile serie di parole inglesi spese male per la mia apparentemente giusta causa.

 L’altro giorno per esempio ho conosciuto un ragazzo siriano molto giovane, alto, barba tenuta bene ed un gentilezza infinita, mi ha raccontato di essere scappato dalla Siria insieme alla famiglia per trasferirsi in Turchia così da poter studiare ingegneria informatica. Stufo però del razzismo sistematico di buona parte dei turchi nei confronti dei siriani ha deciso di partire per andare a nord, magari Germania, forse Norvegia. Si è lasciato fotografare con annessa mia promessa che “se ce la farai verrò a trovarti con la fotografia stampata”. Oppure il giorno seguente quando dopo ore sotto il sole cocente (e senza crema solare) una donna afghana, in genere molto difficili anche solo da trovare lungo la traversata dei Balcani, si è lasciata fotografare insieme al marito rispondendomi molto timidamente in un inglese perfetto, quasi da invidia.

 Ecco dovrebbero essere questi i miei argomenti di discussione, non i piatti sporchi a casa o la polvere sotto al letto che mi è stato assegnato nella camera comune.

 Se per riuscire a raccontare in maniera esaustiva queste storie mi basta in cambio bere un po’ di  acqua sporca e mangiare qualche verdura molliccia in più del mio solito allora dovrei essere più che contento di come stanno andando le cose.
 Forse però il problema è che cerchiamo delle risposte ponendoci le domande sbagliate.
 Quando sono arrivato, una settimana fa, quello a cui non riuscivo a smettere di pensare stando in questa casa è “ma io cosa ci faccio qua?” quando l’unica cosa sarebbe dovuta essere “io so perché sono qua”

 Un alpinista polacco, Tomek Mackiewicz, morto qualche anno fa durante una scalata difficilissima su una delle vette più alte del pianeta aveva descritto la questione del rischio del suo lavoro così:
 “E perché lo sto facendo, perché “sto spingendo”? Per lo stesso motivo per cui Colombo andò alla scoperta dell’America, Amundsen ha raggiunto il Polo Sud, Thor Heyerdahl ha navigato attraverso il Pacifico, Gagarin è volato in orbita e Armstrong è atterrato sulla Luna. E perché Copernico annunciò la sua teoria esponendosi alla Chiesa? Poteva stare tranquillo. Perché un uomo ha il bisogno di esplorare, di acquisire, ed è a causa di questo bisogno, come specie, che non camminiamo più sugli alberi e non ci alimentiamo di vermi. E perché stiamo salvando coloro che “si sono trovati in pericolo per propria colpa”? Perché siamo persone. Perché abbiamo sentimenti di empatia. E alla fine, vorrei davvero chiedere a questi signori (…) di pensare a se stessi, nel caso qualcuno mai si ricordi delle loro realizzazioni. Perché forse vale la pena vivere qualcosa, qualcosa più di una gustosa cena.”

Tornando quindi ai miei pensieri si, ho proprio fatto un errore da principiante, ho predicato bene e razzolato male, malissimo. Ho preteso di essere indispensabile, di avere la ragione assoluta  dimenticandomi perché sono venuto fino a qui e lasciandomi prendere da qualcosa di completamente superficiale, dimenticandomi di quella parte di sacrifici necessariamente indispensabili. E sarebbe bastato sedermi a riflettere per qualche minuto. Minuti che finalmente mi sono concesso e che oltre a rasserenarmi mi hanno anche fatto capire che le prossime cinque settimane passeranno in fretta ed ora mi ricordo bene perché sono qui, perché se una cosa è da fare, si fa.

 
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¡Hasta la revolución! … ¿siempre? Parte 2 - Spagna