Lampedusa

La porta d’Europa.

É facile capire perché Lampedusa venga definita “La porta d’Europa”: a soli 140 km dalla Tunisia e 280 km dalla Libia, Lampedusa rappresenta la via più facile di salvezza per chi decide di affrontare il mare in cerca di una possibilità in più.
Se arrivi a Lampedusa vivo, hai la vita davanti, o almeno così pare.

Sono arrivato sull’isola convinto di poter raccontare una storia facile, una storia di salvezza, spinto da qualche consiglio ed un paio di contatti, carico d’iniziativa e pronto a trovare storie ad ogni angolo del paese, ed effettivamente così è stato, solo in maniera diversa rispetto alle mie aspettative.

La prima cosa che noto è infatti la quantità di rifiuti che assale il porto di Lampedusa, plastica, resti di barche distrutte, scarpe abbandonate, giubbotti di salvataggio. Giubbotti di salvataggio che non sono stati abbandonati dai pescatori, ma dai migranti che sono recentemente riusciti a raggiungere l’isola. Ce ne sono di diversi tipi e sono disseminati lungo tutta la costa sud e, da quello che ho potuto vedere, sembra che i lampedusani abbiano imparato a conviverci.

Ma non ci sono solo giubbotti, continuando a camminare per il porto noto tante piccole barche abbandonate, rotte, piene di rifiuti. Mi avvicino ad una di queste e poco dopo aver scattato qualche fotografia noto che all’interno c’è di tutto: altri giubbotti di salvataggio, coperte termiche e resti di altre barche.

Cerco di chiedere informazioni a riguardo e vengo a sapere che le barche spiaggiate che si trovano vicino ai porti militari sono le imbarcazioni recuperate dalla Guardia di Finanza e dalla Guardia Costiera durante le operazioni di salvataggio che, una volta volta terminate, vengono portate a riva in attesa di essere distrutte, sempre che non vengano affondate durante le operazioni, ovviamente.

Marzo solitamente non è un mese molto attivo per gli sbarchi, nonostante il 2022 sia già un anno anomalo con circa 3000 migranti arrivati tra gennaio e febbraio, il mio tempo qui è limitato e posso solo cercare di documentare com’è la situazione di un’isola che a detta delle notizie è “invasa dai profughi”.

Riesco a parlare con un ragazzo dell’associazione “Mediterranean Hope”, che da diversi anni si occupa di accoglienza sul territorio, mi spiega che da tempo, dopo ogni salvataggio in mare, i migranti vengono velocemente portati all’Hotspot, direttamente dalle barche militari, attraverso i furgoni dei Carabinieri, e che nessuno può entrarvi a contatto. Dall’Hotspot i migranti non escono finché non vengono registrati, riconosciuti ed assegnati ad un altro centro in giro per l’Italia, nessuno ha più il permesso di camminare libero sull’isola.

Provo ad andare all’hotspot, sapendo che non mi avrebbero mai lasciato entrare, specialmente con attrezzatura fotografica, c’è una sola strada che ci arriva e, come mi era stato detto, non riesco ad arrivare neppure al cancello d’ingresso. Il giorno successivo provo però a raggiungerlo da una strada secondaria senza nessuna presunzione o insistenza, solo per curiosità. Raggiungo questa strada secondaria, riesco a vedere l’Hotspot, e i due fuoristrada dell’esercito militare che controllano il perimetro vedono me.

Non tento l’approccio e capisco che sia meglio andarmene, d’altronde sono solo all’inizio di questo progetto e dicerto non sono nella posizione di potermi mettermi nei guai proprio ora.
Scatto una fotografia e me ne vado.

L’Hotspot di Lampedusa (dal sito di Invitalia) ha una capienza di 403 posti.
Mi dicono che attualmente è pieno, pur essendo ora un periodo “calmo”, mi dicono però che nei periodi con più affluenza ci siano state anche più di mille persone, altri dicono addirittura duemila, in un modo o nell’altro.
Non ho modo di verificare, la gestione del centro è privata, la sorveglianza è attiva tutto il giorno e sono davvero pochi i giornalisti che riescono ad entrare, per non dire nessuno. Tuttavia le storie e le testimonianze a riguardo sono davvero tante e non mi viene difficile credere che sia tutto vero.

Nonostante tutto questo la vita a Lampedusa continua indisturbata, i pescatori vanno al porto lasciando le chiavi delle macchine inserite e i bambini giocano per strada la sera.

L’isola è piccola e piccolo è il cimitero che decido di visitare sotto consiglio di un amico.
All’interno sono stati seppelliti alcuni dei migranti che a Lampedusa non sono arrivati vivi. I lampedusani hanno deciso di dare loro dignità, non solo decidendo di seppellirli a loro spese, ma inserendo le tombe dei profughi tra quelle della gente comune, senza diversificare le tombe degli italiani da quelle dei migranti. D’altronde, almeno dinnanzi alla morte, dovremmo essere tutti uguali.

Per il mio breve soggiorno a Lampedusa ho affittato un piccolo appartamento, il proprietario si chiama Francesco, è un pescatore in pensione che però ogni mattina esce in barca in cerca di polpi e calamari, come tanti altri qui sull’isola, mi chiede di andare con lui una mattina ed io accetto immediatamente.

Partiamo presto ed il mare sembra calmo. Appena usciti dal porto però si alza un leggero vento ed il mare si agita in fretta.

“Soffri il mal di mare?”

Assolutamente sì - penso, ma ormai non posso tirarmi indietro, quindi mi armo di un convintissimo “Assolutamente no!” e cerco di compensare il continuo inclinarsi della piccola barca sperando di rimandare il mio appuntamento con la nausea a giorni peggiori.

Insomma, non sono proprio un lupo di mare e l’ondeggiare continuo della barca, misto al terribile odore di gasolio bruciato che dal piccolo motore mi entra direttamente nel setto nasale, non fa che aumentare il mio senso di disorientamento e una terribile nausea che sembra volermi uccidere.
Vomito quel poco che ho mangiato a colazione subito dopo aver scattato qualche fotografia

La mia esperienza marittima dura solo poco più di tre ore, in barca c’ero già stato e nonostante questo non è andata per niente bene.

L’unica cosa a cui riesco a pensare è come facciano a sopravvivere su barche proprio come questa dalle 30 alle 100 persone in mare aperto, a volte solo per qualche ora prima di venire intercettati, a volte giorni interi senza l’ombra di un riparo dal sole o una goccia di acqua potabile.

Mentre rientriamo al porto ci raggiunge anche una barca della Guardia di Finanza di ritorno dal solito giro di controllo intorno all’isola. Sembra puntare proprio verso di noi, come a volermi dare l’opportunità di immergermi a pieno nel punto di vista di un naufrago in preda alla disperazione.

“Non è andata bene, ma è pur sempre un’esperienza” mi dice. E ha ragione.

Prima di partire sono riuscito a contattare Francesco Malavolta, un fotoreporter che di quello che accade nel mediterraneo se ne intende.

È lui che mi ha spinto a venire a Lampedusa. Mi dice che devo assolutamente incontrare Lillo, lui ha tante storie da raccontare e le ha vissute tutte in prima persona.

Così, dopo un paio di chiamate, ci incontriamo per un caffè e gli faccio giusto qualche domanda prima di rimanere in silenzio ad ascoltare.

Mi racconta del dramma del 3 ottobre 2013 - dove persero la vita quasi 400 persone al largo dell’Isola dei Conigli - della disperazione, della volontà di tutti nel dare una mano, ove possibile. Mi racconta di innumerevoli ragazzi, uomini e donne arrivati negli anni, dei tanti minori non accompagnati.

Cosa spinga una famiglia ad affidare un bambino al mare, è difficile anche solo poterlo immaginare, la disperazione non ha un limite, ma Lillo ha sempre cercato di andare oltre a tutto questo.

Fino a qualche tempo fa i rifugiati potevano uscire dall’Hotspot durante il giorno e ad ogni occasione che gli si presentasse, insieme alla moglie e le due figlie, ha sempre dato una mano, con qualche vestito, del cibo o un semplice sorriso accompagnato da qualche parola di conforto.

Tanti sono i ragazzi che ha aiutato ed ospitato a casa sua che neanche riesce a ricordarne tutti i nomi. Sì, perché fin dai primi sbarchi, nei primi anni novanta, i lampedusani li accoglievano in casa, i profughi, offrendo loro tutto l’aiuto disponibile.

Alcuni di questi ragazzi, mi racconta, che ora vivono altrove, di tanto in tanto tornano a Lampedusa e la prima persona che chiedono di incontrare è proprio Lillo.
Un paio di loro hanno persino le chiavi di casa, entrano, salutano, scambiano storie e ringraziamenti per poi tornare alla loro vita. È sempre una festa quando si rivedono.

Le storie che sento arrivare con più sofferenza però sono quelle dei tanti bambini che ha cercato di aiutare, portandoli al parco giochi, di nascosto dalle forze dell’ordine, facendoli giocare e ridere il più possibile, ma sempre con un occhio di riguardo verso chi avrebbe potuti vederli, perché seppur in buona fede, non avrebbe potuto farlo.

Quasi con le lacrime agli occhi mi confida che, anche se rifarebbe tutto ciò che ha fatto - e che continuerà a fare sempre - , fatica a dover vivere in un mondo dove chi vuole aiutare, chi è gentile, viene mal visto e messo costantemente in difficoltà.

Lillo non è l’unico lampedusano di questo tipo, ce ne sono tanti e si impegnano molto, ma ad oggi è sempre più difficile.
Tutti gli sbarchi sono sorvegliatissimi e l’unica occasione di assistervi, per chi come lui ha voglia di dare almeno un po’ di conforto, è quella di chiedere il permesso di entrare nei porti militari, dove non è possibile fare video, fotografie o domande di troppo.

Senza contare che, a causa del covid, tutti quei profughi che sfortunatamente risultano positivi vengono isolati sulle barche quarantena.

A Lampedusa i migranti non si vedono per nulla, sembra quasi che qualcuno voglia tenerli nascosti agli occhi di tutti.

Il nostro paese è pieno di storie come queste che aspettano solo di essere raccontate e credo sia importante farlo, perché se una storia non la sai, allora non esiste, ma quando se ne parla, invece, c’è una possibilità in più che le cose cambino e ce n’è davvero bisogno.

Presto ripartirò per le prossime tappe di questo progetto, in vista della mostra fotografica “Chi accoglie non fa notizia” che verrà esposta a Brescia in occasione del Festival della Pace 2022.

 
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Roccella Jonica